Le donne, la violenza e la resistenza
Sempre me incomodou o modo com que Italo Calvino (O caminho dos ninhos de aranha) e Beppe Fenoglio (Uma questão pessoal) retrataram as mulheres no contexto da resistência fascista durante a Segunda Guerra na Itália, mesmo dando o desconto da distância temporal, espacial e cultural entre a minha leitura e o contexto de produção das obras. Afinal, ambos foram partigiani. Será que eles não sabiam das muitas mulheres que também atuaram na resistência? Aproveito uma leitura sobre as personagens femininas em La luna e i falò, de Cesare Pavese, que trata da permanência do fascismo no pós-guerra, para pensar um pouco sobre essa não presença partigiana feminina na obra dos dois grandes autores do imediato pós-guerra italiano.
Erano i giorni in cui mi preparavo per scrivere il commento rispetto a La luna e i falò (gennaio 2021) quando ho visto un post di Facebook del linguista Marcos Bagno. Lui diceva così:
Espanha: aumento de 450% dos casos de violência de gênero durante a pandemia. E isso se repete em todos os lugares. As mulheres são o saco de pancada, o bode expiatório da impotência masculina diante das crises individuais, locais, nacionais e planetárias. Seja em país desenvolvido ou num pântano miasmático como o Brasil. A covardia machista é a concretização do ódio que tantos homens devotam fervorosamente às mulheres, especialmente às “suas” (BAGNO, 2021).
Subito mi è venuto il ricordo della cattiva fortuna delle coppie di donne nel romanzo di Cesare Pavese: la cognata e la vecchia che vivevano col Valino; le due sorellastre dell’Anguilla; e anche Silvia e Irene, le due figlie del sor Matteo — la Santina mi pare un caso diverso. Queste ultime non sono state uccise dai loro uomini, e forse la differenza di classe tra queste e quelle ci possa dare una spiegazione.
Che le donne abbiano un ruolo importante nel libro ne abbiamo discusso in lezione. La violenza che hanno sofferto sembra una forma di parlare degli effetti della disuguaglianza sociale ed economica venuta — o rimasta — con la fine della guerra e la sconfitta dei progetti politici di sinistra nelle elezioni successive. Infatti Pavese prova a mostrare un po’ quello che ha detto Bagno: gli uomini colpiti dalla miseria e dalla impotenza scaricano la frustrazione addosso alle loro donne.
Nonostante, quando Bagno parla in “crisi” vuole riferirsi non solo a quelle economiche; sappiamo che lui è cosciente che il problema della miseria non è soltanto una questione di classe, ma anche di genere e di razza. Ossia, che il sistema capitalista — nel libro, criticato specie da Nuto — non dipende soltanto dallo sfruttamento della classe lavorativa, ma anche dallo sfruttamento delle donne e delle persone razzializzate — per usar un termo di Françoise Vergès (2020). Questo sembra un intendimento recente (e tardivo) tra gli studiosi e i militanti di sinistra, molti di loro ancora resistenti a riconoscere il proprio sessismo o razzismo come contraddittori rispetto ai loro principi socialisti.
Nel tempo di Nuto si pensava che quando il capitalismo fosse sostituito da un regime economico più giusto tutti gli altri problemi si sarebbero risolti, incluso la brutalità verso le donne. Questa è vista come sintomo e non come un’oppressione da combattere insieme (e non dopo) all’oppressione di classe. Tra gli scrittori più noti del dopoguerra Pavese dà un passo avanti quando la sua narrativa considera che le donne soffrono violenze specifiche o che le hanno sofferte durante e dopo la guerra — cosa che i narratori di Italo Calvino (2004) in Il sentiero dei nidi di ragno e di Beppe Fenoglio (2001) in Una questione privata non sono riusciti a capire (o a riconoscere). Le donne narrate dai protagonisti di Calvino e di Fenoglio sono viste quasi come meritevoli della brutta fortuna che le hanno colpite, quasi come se le avessero cercate — per futilità o per stupidità.
Il narratore di Pavese invece riconosce il ruolo del sistema e degli uomini nelle tragedie sofferte dalle donne, e questa consapevolezza appare di solito nei ragionamenti di Anguilla e meno in quelli del politicamente cosciente Nuto. Perché? È una questione la cui possibile risposta lascio per ipotizzare alla fine del testo.
Già nel primo paragrafo l’Anguilla pensa su chi sarebbe potuta essere sua madre, se una ragazza o “due povere donne”. Una figlia di un padrone dovrebbe nascondere un figlio bastardo e andrebbe da sola a consegnare il bambino; invece le donne lo avrebbero fatto in due soltanto se fossero povere — per cui la morale non è la stessa e la solidarietà è più presente — o se fossero serve della padrona che avesse partorito il bambino. In questo piccolo passaggio Pavese mostra una consapevolezza della dinamica diversa dell’oppressione verso le donne rispetto alla loro classe, e che poi resterà palese al lettore quando Anguilla sembra capire l’angoscia e la sofferenza delle due ragazze borghesi, le figlie del sor Matteo.
Ma tornando all’inizio, c’è un altro segnale del ragionamento dell’Anguilla nel secondo paragrafo, quando riconosce che alcune famiglie preferirebbero prendere una bambina nell’ospedale, per farla di servetta e comandarla meglio — ossia, le donne sono più facilmente “sfruttabili”.
Poi, quando va per il paese, immagina le persone che pensano a lui come lui pensava a quelli che passavano per la strada, e include le donne tra di loro:
"Magari c’è qualche ragazzo, servitore com’io sono stato, qualche donna che si annoia dietro le persiane chiuse, che pensa a me com’io pensavo alle collinette di Canelli, alla gente di laggiú, del mondo, che guadagna, se la gode, va lontano sul mare” (PAVESE, 2012, p. 14–15).
Il narratore riconosce pertanto l’oppressione specifica delle donne, che non possono fare quasi niente per sé, non possono andare e venire liberamente, sono condannate a restare a casa e ai ruoli domestici, a volte senza nemmeno un’istruzione che le permetterebbe di capire la loro condizione. Tra gli amici Nuto sembra esser il più “cosciente” dei due, ma non fa lo stesso ragionamento rispetto alla condizione femminile.
È interessante notare che per più di una volta Nuto recrimina la crudeltà verso gli animali e associa questo comportamento dei bambini all’ignoranza (sociale, politica) e ai gesti di violenza pubblica (come quelli dei fascisti) che potranno emergere quando saranno adulti:
“E poi, si comincia così, si finisce con scannarsi e bruciare i paesi” (PAVESE, 2012, p. 14).
Però non sono anche poche le volte in cui il narratore mette insieme nella narrazione le donne e le bestie come esseri maltrattati dagli uomini colpiti dalla miseria. Un primo esempio:
“Nuto mi disse che dalla piana del Belbo si sentivano le donne urlare quando il Valino si toglieva la cinghia e le frustava come bestie, e frustava anche Cinto — non era il vino, non ne avevano tanto, era la miseria, la rabbia di quella vita senza sfogo” (PAVESE, 2012, p. 32).
Poi, nella stessa pagina, rispetto alle due sorellastre maltrattate dai mariti: “I due uomini lavoravano forte, sfiancavano i buoi e le donne […] (PAVESE, 2012, p. 32).
E quando parla dei messicani, la donna e il mulo sono beni che i più miserabili di loro non li hanno: “Fortunati che avevano un mulo. Ce n’era di quelli che partivano scalzi, senza nemmeno la donna” (PAVESE, 2012, p. 36).
Forse per questo l’Anguilla non capisce perché le donne cercano tanto gli uomini, anche le ragazze che lui considerava più “signore”. Se gli uomini sono violenti e sfruttatori, perché piacevano loro tanto? Nuto glielo spiega apelando alla natura — “il sangue è rosso dappertutto” (PAVESE, 2012, p. 56) — e non sembra fare nessun giudizio morale, così come non sembra essere moralista verso la prostituzione. Ma a nessuno dei due viene da pensare che le donne non erano praticamente niente senza gli uomini. Se la miseria fa che le donne povere siano ammazzate dai mariti, la morale fa che le donne borghesi, come Silvia e Irene, siano uccise dalla condanna morale.
Nonostante gli avanzi rispetto al trattamento delle donne, il narratore di Pavese, così come quelli di Calvino e di Fenoglio, non riesce a concepire un altro ruolo femminile nel front della resistenza che non quello della prostituta o della donna futile, spensierata, nonostante ci siano state veramente tante donne partigiane, semplici staffette o di ruolo più attivo nelle battaglie. Nei libri di Pavese e di Fenoglio ci sono due donne professioniste, di ruolo relativamente apicale nel contesto. Entrambi sono maestre e fasciste. La maestra di Pavese è anche padrona, proprietaria di vigne (sarebbe la stessa padrona del Valino?), e questo è interessante per sottolineare nella storia la prevalenza della classe come criterio di oppressione. La padrona del Valino vede la miseria che colpisce le due donne nella cascina, ma non migliora la loro vita, invece campa la bestia.
Forse Pavese ha fatto attenzione alle donne proprio dovuto alla mancanza di riconoscimento del loro ruolo nella resistenza dalla parte dei loro alleati politici. In alcuni libri sulla resistenza partigiana le donne sembrano essere trattate come stupide, come vittime senza comprensione delle cose, o come ragazze futili che pensano al proprio benessere mentre gli uomini lottano nelle colline. Forse hanno pensato un po’ così di Pavese: mentre tutti lottavano, lui rimaneva nascosto. Ma poi Pavese avrebbe individuato le contraddizioni oppure certe ipocrisie dei suoi correligionari nell’affrontare le cause delle disuguaglianze o delle oppressioni. Infatti il narratore ne capisce rispetto a Nuto.
Riconoscere l’oppressione di genere — perché colpisce tanto le povere (le donne del Valino, le sorellastre) quanto le “signore” (Silvia e Irene) — e allo stesso tempo puntare l’imperfezione del comunista Nuto sarebbe una forma trovata dal narratore per svelare queste contraddizioni. Per rendere la terra più viva gli uomini fanno i falò. E tanto le povere del Valino quanto la Santina sono state bruciate dagli uomini nei falò della disperazione. Che sorta di terra rimane di queste sacrifici?
Riferimenti
BAGNO, Marcos. Espanha: […], 14 jan. 2021. Facebook: araujobagno. Disponível em: https://www.facebook.com/araujobagno. Acesso em: 17 jan. 2021.
CALVINO, Italo. A trilha dos ninhos de aranha. Tradução Roberta Barni. 1 ed. São Paulo: Companhia das Letras, 2004.
FENOGLIO, Beppe. Uma questão pessoal. Tradução Maria do Rosário Costa Aguiar Toschi. São Paulo: Berlendis & Vertecchia Editores, 2001.
PAVESE, Cesare. La luna e i falò. Torino: Einaudi, 2012.
VERGÈS, Françoise. Um feminismo decolonial. Trad. Jamille Pinheiro Dias e Raquel Camargo. São Paulo: Ubu, 2020.
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Como citar este artigo: BAGGIO, Adriana Tulio. Le donne, la violenza e la resistenza. Adriana Meis, 25 abr. 2022. Disponível em: https://adrianabaggio.medium.com/le-donne-la-violenza-e-la-resistenza-f4b22dadad52.